Picioccalla – di Antonio Pisano

I ragazzini di Capoterra, tra la meta’ e la fine degli anni ’70, si trovavano in mezzo ad uno
stravolgimento delle loro vite, cosi’come della loro comunita’ e del loro mondo. La loro
esistenza scorreva libera e spensierata e il loro futuro era solo nelle mani e nelle tasche
degli adulti che li allevavano. Andavano in giro con tute sportive che chiamavano
canadesi, con la fionda in tasca e con il moccio al naso che andava su e giu’. Le
ginocchia sbucciate per le cadute, spesso provocate dalle corse ad acciappai e con la
voglia di diventare grandi che scoprivano pian piano: frequentando gli usci dei bar
traboccanti di manodopera o quelli degli antichi portali dove si annidavano misteriosi
clubs da dove uscivano strani profumi, misti a suoni sempre piu’ nuovi e differenti da
quelli delle calde cucine materne. Le tavole fumavano di pilloi’e’ taccua e minestrone, di
panadas e arrosti, di pani arridau e callu de crabittu; il vino ognuno se lo faceva per se e
l’acqua da bere la si andava a prendere alla sorgente di sa canna. I racconti della montagna vicina si mischiavano a quelli della citta’, poco lontana ma
cosi’ poco vista e mai vissuta, come fosse un luogo di perdizione dal quale non farsi
contaminare. La tv e i suoi due canali trasmettevano poche cose, dal pomeriggio fino a
sera, senza colori e con rare animazioni. Le notizie erano affidate a comunicati striminziti
che spesso erano quelli gia’ trasmessi dalla radio, con notizie contrastanti dove facevano
capolino soprattutto parole come terrorismo o banditismo. Spesso si faceva tardi po
nuddha davanti alla tv, giusto per tenere compagnia a genitori o a nonni che volevano
vedere le opere liriche o i matches di boxe. Ogni giorno, poi, si imparavano a memoria
nuovi soprannomi, utili a scoprire il volto di chi si celava dietro. Ogni giorno si andava in
giro per le campagne incolte, in cerca di primizie stagionali o di luoghi adatti per
innocenti catture di uccellini da ingabbiare.
I ragazzini di Capoterra si sforzavano di fare da bravi a scuola, edifici nuovi e chiusi,
cosi’ diversi dagli aperti cortili in cui si stava crescendo e si veniva educati. A scuola si
doveva imparare a parlare bene l’italiano ma anche il francese, perche’ quelle erano le
lingue che contavano e non il sardo con cui si pensava e con cui si comunicava a casa e in
giro. A scuola si andava con i vestiti di tutti i giorni cosi’ se si sporcavano o si scucivano
finendo per terra a bisticciare le mamme non si arrabbiavano e i padri non si accorgevano
di nulla. A scuola si andava con la merenda preparata in casa o regalata dai resti del
pranzo o della cena, ed era impossibile non confrontarla o misurarla con quella dei propri
compagni. A scuola si andava con la speranza di essere promossi, cosi’ finalmente era
finita e si poteva aspettare il giorno della visita militare o si andava alle scuole grandi, de
Casteddhu.
I ragazzini di Capoterra, per le feste comandate, guardavano i parenti giocare a carte e li
si ascoltava senza capire nulla dei loro discorsi da adulti: parlavano di Riva e di Mesina,
di Berlinguer e Aldo Moro, di fascisti e comunisti, della vigna e di chi non c’era, della
caccia e de is pillonadoris, di sardisti e indipendenza.
I ragazzini di Capoterra si annoiavano di rado e giorno dopo giorno apprendevano cose
nuove ed accattivanti mentre il fisico cambiava e gli amici erano sempre piu’ numerosi.
I ragazzini di Capoterra li incontravi alle feste popolari, quelle dei balli in piazza di
chiesa o in piazza Sardegna, nei chioschi estivi alla Maddalena spiaggia, nelle nottate
trascorse a pigai friscu o a chiacchierare e giocare in su lominaxi, cun is amigus de
bixinau, o con i parenti emigrati che tornavano in vacanza)…

Scarica il racconto completo

Immagini collegate: