Capoterra nel 1965 – Felice Cherchi Paba

Capoterra nel 1965 - Felice Cherchi Paba

Capoterra nel 1965 – Felice Cherchi Paba

Da “Il Litorale Centro-Meridionale Sardo – (Capoterra – Sarroch – Pula – Nora – S.Margherita – Teulada)” dei Quaderni Storici e Turistici di Sardegna, N° 6 – 1965 di Felice Cherchi Paba, pubblichiamo uno stralcio del capitolo che riguarda Capoterra.

CAGLIARI – CAPOTERRA – SARROCH

La strada litoranea Cagliari-Solci doveva essere la più importante dell’isola sin dal periodo punico, data l’industria mineraria che veniva praticata nelle montagne del Sulcis meridionale, la cui produzione doveva essere avviata agli scali portuali di Nora, Solci e Karalis; d’onde il grande traffico per la predetta strada.

In periodo romano esisteva una strada litoranea che costeggiava il mare posto che una colonna miliaria, ritrovata in villa d’Orri, segnava XI miglia da Cagliari a Nora; distanza. esatta se si considera il tracciato lungo il litorale e non come scrisse l’Angius, che ritenne che, detta strada aggirasse lo stagno di S. Gilla per cui la distanza Karalis-Nora sarebbe stata di oltre XX miglia.

Usciti da Cagliari dalla parte occidentale, per la Statale 195, si osserva a sinistra La Plaia, toponimo spagnolo, dove in passato si trovava un cantiere navale fondato per iniziativa del Cav. Falqui-Massidda, autorizzato con decreto del 5 Maggio 1872 ad aprire lo stabilimento atto a far fiorire un’industria cantieristica sarda; e il 1° Gennaio del 1875 vi fù varata la prima ed unica nave, posto che l’apatia e indifferenza dei più fecero cadere così promettente attività.

Superata La Plaia e il primo ponte che mette in comunicazione il mare con lo stagno, per lunghissimo tratto si costeggia il mare, e la zona litoranea prende il toponimo di Giorgino per un’antica chiesetta bizantina dedicata a San Giorgio che fu il patrono dei pescatori quando nell’isola officiava la Chiesa Greca.

Questa chiesetta è la prima tappa del viaggio celebrativo che S. Efisio fà processionalmente, ogni 1° Maggio, da Cagliari a Pula.

Lungo la strada si contano sette ponti superanti altrettanti canali che mettono in comunicazione il mare con lo stagno e hanno alle imboccature altrettante piccole peschiere. Oltre si trova la Maddalena che, per i ruderi romani che vi si scorgono, si ritiene fosse un antico popolato sotto la protezione di S. Maria Maddalena e distrutto nel medioevo, come vuole lo Spano (1), dalle incursioni moresche.

Sulla destra si vedono le saline della Società Contivecchi, la cui produzione è destinata esclusivamente all’esportazione: in Svezia, Norvegia, Francia, Irlanda e altre nazioni.

Questo lido si chiamava, per la vicinanza alla capitale, Litus Finìtimum.

In questa spiaggia nel 1292 sbarcò il capitano Gioachino Merello, genovese, al comando di tre navi, devastando le campagne durante la guerra contro i pisani (2).

Nel 1324 il capitano Pisano Manfredo Donoratico sbarcò diretto ad assalire Decimo prima della battaglia, per lui infausta, di Luco-Cisterna.


1) Lamarmora A. – Itinerario dell’Isola di Sardegna. trad. G. Spano – Cagliari 1868 – pag. 95. 2) Manno G. – Storia di Sardegna – Cap. VIII.

 


Sulla destra, per una strada di quattro chilometri o poco più, si giunge a Capoterra che, in passato, era un villaggio rivieresco e le popolazioni, a seguito delle incursioni barbaresche, l’abbandonarono ritirandosi nelle prossime montagne e mantenendo l’abitato il vecchio toponimo che più non gli si addice per la posizione geografica in cui si trova.

 

Nel 1324 il villaggio venne infeudato a Giacomo Villani della Casa Gaetani e nel 1344 un figlio di questi lo vendette alla moglie di Mariano IV d’Arborea, Timbora di Roccaberti, madre di Eleonora, per la somma di 1700 fiorini d’oro. Dalla Roccaberti il villaggio passò, con atto di vendita, a Dalmazio Rodigia di Bagnos (1).

Nel 1441 il villaggio venne infeudato a Monserrato Ferrario e, in fine, dopo vari trapassi, a Pietro Bellin; epoca in cui il villaggio rivierasco fu distrutto e più tardi ricostruito nelle vicine montagne. La distruzione deve essere avvenuta intorno ai primo decennio del sec. XVII mentre la ricostruzione avvenne nel 1655, per interessamento di Don Girolamo d’Aragal e Cervellion, che trasferì dal Capo di Sopra diverse famiglie che erano sotto minaccia di sterminio per odi familiari; gli ultimi feudatari furono i Zapata.

In Capoterra si trovano diverse chiesette rurali di sommo interesse: S. Efisio, S. Barbara, S. Girolamo, S. Isidoro tutte appartenenti alla Chiesa Greca per cui questi culti, affiancati a quelli di S. Maria Maddalena e S. Giorgio, precedentemente citati, fanno pensare a un locale, antico centro religioso greco di particolare importanza, essendovi rimasta fino al secolo XIII traccie dell’eremitaggio della Chiesa Greca.

Afferma l’Angius (2) che, nell’antica chiesa di S. Barbara, nel 1281 vi menava vita eremitica, con altri compagni, certo frate Guantino; per cui questa chiesa, come quella di S. Girolamo, erano fino all’800 meta di grandi pellegrinaggi.

E’ evidente che l’origine del culto per i predetti due santi è di schietta provenienza greca, avvalorata dalla tradizione dell’eremitaggio e dei pellegrinaggi che ci riportano al periodo della Chiesa Greca in Sardegna.

Interessanti sono alcune tradizioni cristiane locali, tra le quali il rito di deporre, dopo aver bevuto l’acqua sorgiva della grotta di S. Barbara, una crocetta generalmente ottenuta da uno stecco spaccato a metà dove s’inserisce un altro stecco orizzontalmente, deponendola in una delle tante sporgenze della roccia.

Questa sorgente vien detta anche «De sa Scabizzada» forse in ricordo di qualche donna che vi fu trovata decapitata.

Senza dubbio, la fonte di S. Barbara è da ritenersi un’antica fonte pagana, dove si offrivano alle divinità ctoniche doni e preghiere che


1) Fara J. B. – De rebus sardoies – Lib. III – pag. 303. 2) Casalis G. – Dizionario degli Stati Sardi – Torino, 1854 – Voce Capoterra.

 


Il Cristianesimo sostituì, col tempo, con l’offerta delle predette crocette deposte entro la stessa fonte a purificazione e consacrazione. Rito che ci riporta al periodo paleo-cristiano. La chiesetta con la sua cupola a catino ci ricorda un motivo architettonico bizantino mentre la facciata nascosta da sovrastrutture ci rivela un romanico del XII sec. e meriterebbe di essere messo in luce onde meglio valorizzare l’antico monumento.

 

Per l’amenità. del luogo, ombroso, fresco, ricco di acque, prossimo a Cagliari e al mare, suggeriamo la creazione di un Campeggio Internazionale di Universitari Cattolici, data la sede e la possibilità di usufruire delle varie belle palazzine che vi si trovano per essere adibite a uffici temporanei.

La zona di S. Barbara è amenissima, veramente invitante alla contemplazione e all’eremitaggio e sarebbe indubbiamente, un posto meraviglioso per un campeggio internazionale data la vicinanza a Cagliari e quindi al porto e all’aereoporto.

E’ sperabile che la Regione che ha tenuto finora questo bel villaggio di 7000 abitanti in uno stato deplorevole tanto che al confronto il villaggio di Ollollai ha le strade interne molto meglio sistemate di come non le abbia Capoterra; eppure il primo è nel centro montanaro dell’Isola e il secondo a quattro passi da Cagliari e quindi sotto gli sguardi di tutto il turismo che confluisce alla capitale.

Un’opera veramente degna che la Regione dovrebbe fare è la strada asfaltata da Capoterra a S. Barbara; si tratta di un’opera che darebbe lavoro ai numerosi locali disoccupati, creando un ben attrezzato cantiere di lavoro.

Capoterra è stata sempre una terra di cacciatori e di uccellatori. Vi si confezionano e famose grive, dette anche «murtidus» e «tacculas». Sono tordi bolliti e lessati con una prestabilita dose di sale, tenuti poi in mezzo a foglie di mirto che comunicano alla selvaggina, così preparata, un pregiato profumo, dandogli un gusto particolare. Si producono e si consumano nell’inverno, quando i tordi si nutrono e ingrassano mangiando bacche di mirto; si vendono infilzati per il becco con un virgulto di mirto, a mazzi di otto capi.

Un’altra specialità di Capoterra era la pesca delle sanguisughe che si pescavano anticamente in località Tuerra, e se ne rifornivano le farmacie, gli ospedali e i flebotomi di Cagliari e i villaggi del Campidano.

Sopra il villaggio di Capoterra si trova la miniera di ferro di S. Leone, oggi chiusa, messa in evidenza soprattutto dal compianto Ing. Gouin, uomo di vasta coltura e di grandi virtù organizzative posto che, nel comprensorio della miniera dissodò oltre 500 Ha. a bosco e macchiatico, sottoponendoli a coltura specializzata di carrubi e di pini marittimi; impiantò, inoltre, una vigna di circa 100 Ha., un vasto agrumeto e innestò un migliaio di olivastri (1).


1) Spano G. – Emendamenti ed aggiunte all’Itinerario di A. Lamarmora – Cagliari, 1874 – pag. 40.

 


Il Gouin fu un innamorato della Sardegna, un attivo operatore economico e competente ingegnere minerario, ma anche buon archeologo che fece nuovi e fortunati scavi nella fonderia nuragica degli Albini in Teti e raccolse tanto materiale archeologico da farne un museo.

 

Oltre Capoterra, rientrando nell’Occidentale Sarda, si trovano varie interessanti aziende agrarie, tra le quali quella che fu dello Scalabrini e la famosa Villa d’Orri.

Il Marchese Don Stefano Manca di Villahermosa fu l’amico più caro del Duca del Genevese Carlo Felice il quale, durante la sua lunga dimora nell’isola, concesse al marchese, in proprietà, una vasta superficie paludosa, per lunghi tratti ricoperta di lentischi e nell’interno boschivo, al fine di bonificarla e coltivarla.

L’opera di Don Stefano Manca fu esemplare sotto tutti gli aspetti, e da quella terra malsana, dalla pestifera landa malarica, seppe trarne un podere agricolo modello, con una trasformazione fondiaria veramente notevole, per quei tempi, mediante la sistemazione idraulica, colmate e impianto di vigne, frutteti e agrumeti giardini ed erbai per il bestiame.

L’azienda, dotata di un’ampia e bella villa, per quei tempi, nonchè di vaste costruzioni rurali, divenne la sede residenziale estiva di Carlo Felice; anche perché, il Marchese, creò intorno alla stessa Villa un magnifico parco ricco di numerose piante esotiche, nonché un vivaio di piante che non possedeva neanche la Penisola, con un giardino che meravigliò vari viaggiatori e scrittori dell’epoca, come il La Marmora, il Bresciani, Valery ed altri.

Il Marchese di Villahermosa fu un innamorato sostenitore della agricoltura e la Sardegna gli deve moltissimo, tanto che desta meraviglia come non sia stata dedicata al suo nome una delle tante scuole agrarie fondatesi nell’isola. E’ augurabile che tanta ignavia venga cancellata a più presto possibile.

Fu lui ad introdurre in Sardegna le prime razze selezionate bruno-alpine, nonché merinos e cavalli riproduttori di razza inglese, araba e andalusa.

Fu Lui ad introdurre, per primo in Sardegna, il mandarino e numerose varietà di fruttiferi. Per dare una immagine della somma importanza del vivaio di Villa d’Orri basti dire ch’esso comprendeva ben 959 piante diverse escluse quelle da giardinaggio. Delle piante fruttifere vi erano 37 varietà di albicocchi, 57 varietà di ciliegi, 7 varietà di mandorli, 70 varietà di peschi, 68 di susini, 141 di peri, 58 di meli, 10 di agrumi, 37 di altri fruttiferi vari. Per il 70% erano tutte varietà nuove per la Sardegna.

Fra le piante ornamentali contava ben 64 varietà di piante grasse, nonché altre rare piante fatte giungere dal Giardino di Acclimatazione di Parigi, compreso l’albero della canfora, dei garofano, ecc. (1).


1) Catalogo Generale delle Piante Coltivate nella villa d’Orri, 1846.1847 – Cagliari, 1847. Il primo Catalogo fu pubblicato nel 1842 – Giardinieri della Villa erano Antonio Sizzia e Giorgio Marcia.

 


Per diffondere la coltura degli agrumi il Marchese istituì, in Villa d’Orri, corsi di agrumicultura, al quali intervenivano anche i figli degli agrumicultori di Milis e altre località dell’isola. La prima scuola pratica di agricoltura sorse, per tanto in detta Villa.

 

Gli allevamenti del bestiame venivano praticati nella vicina Tanca di Nissa, ove il Marchese aveva impiantato grandiosi erbai per il bestiame selezionato che vi allevava, sia vaccino che ovino ed equino. I cavalli arabi del Marchese di Villahermosa erano di alto pregio e uno fra tutti fu distinto e regalato dal Marchese, nel 1837, a Carlo Alberto il quale, con lettera del 25 Novembre dello stesso anno, ringraziava il Marchese del bel dono facendo rimarcare le superbe fattezze dell’animale.

«Je l’ai dèja fait monter devant moi; je lui ai trouvé un mouvement d’epaules superbe soit aut trot q’au qalop; il me plait infinement et je ne saurais assez vous en remercier, vous en exprimer de gratitudine» (1).

Nel 1875 l’On. Branca nel vedere le zone paludose dell’isola pensò di regalare alla Camera di Commercio di Cagliari una copia di bufali che la Camera affidò al Marchese di Villahermosa che ne curò l’allevamento nella tanca di Nissa ottenendone ottimi prodotti.

Il marchese predetto non solo si occupò di colture e allevamenti ma, con spirito innovatore, introdusse nell’isola le prime macchine agricole, i primi aratri di ferro inglesi, come si legge nelle relazioni e verbali di adunanza della R. Società Agraria ed Economica di Cagliari di cui fu l’ideatore e sostenitore ed in seguito attivo Presidente.

Nella Villa si ammirano molti cimeli storici, come armi e bandiere, quadri e documenti, nonché molti ricordi di Carlo Felice e della venerabile Cristina di Savoia di cui in apposita vetrina si ammira l’abito di battesimo.

Dopo la Villa d’Orri s’incontra, a sinistra, il grandioso impianto di raffineria di petrolio, uno dei più importanti del Mediterraneo e di Europa. A breve distanza dopo un chilometro si raggiunge Sarroch villaggio di circa 2500 abitanti.

In passato anche questo villaggio, come quello di Capoterra, era rivierasco ma, per le incursioni moresche, fu abbandonato; e le famiglie si stabilirono più addentro, in due centri capannicoli, dedicati uno a S. Giorgio e l’altra a S. Vittoria; il primo detto «Barraccas de susu» e l’altro «Barraccasa de giossu» (2).

Il rione S. Vittoria si ritiene fosse sede del primo villaggio riabitato in un secondo tempo, dopo la cessazione delle incursioni moresche.

Nella chiesa parrocchiale di S. Vittoria si nota una pila del XII sec., proveniente forse da qualche locale antica chiesa distrutta. Lungo il litorale di questo villaggio si notano tre torri di difesa, erette nel sec. XVII, e denominate di Antigori, del Diavolo, con ricca fioritura di leggende popolari, e la terza detta della Zavorra.


1) Bellonotto G. – Il generale Stefano Manca di villaharmosa – Cagliari 1926 – pag. 207. 2) Casalis G. – Op. cit., voce: Sarroch.

 


Le campagne di Sarroch possiedono ricche vigne, ottimi frutteti e oliveti: una bella tradizione agricola sorta per volontà di un parroco, all’inizio del secolo scorso.

 

Questo parroco, a seguito della campagna promossa da Vittorio Emanuele I, per la valorizzazione degli olivastri, nell’osservare la ricchezza di queste piante e soprattutto di perastri nelle campagne del villaggio e, considerato che le sue prediche a nulla valevano, per indurre i popolani a innestare detti selvatici, applicò un drastico sistema; pena la dannazione dell’anima. Ai contadini che si confessavano imponeva, per penitenza, di innestare un certo numero di dette piante selvatiche, a seconda della gravità dei peccati. E fili da parte dei parrocchiani una continua e alacre opera di innestamento che mutò nel giro di qualche decennio il volto economico della locale agricoltura (1).

Il parroco di Decimomannu impose invece che gli agricoltori, per penitenza lo seguissero per un determinato numero di giorni e di buon mattino li conduceva ad innesare i loro olivastri. Quello fù un grande clero!

Oggi le campagne di Sarroch vantano bellissimi frutteti e la miglior frutta che si esita nei mercati cagliaritani è, indubbiamente, quella di questo illustre villaggio.

Dopo Sarroch si trova, sulla destra, sopra una collina, una taverna per i turisti, donde si gode un’ampio panorama e vi si possono gustare i famosi «murtidus» o «tacculas» che si confezionano anche in questo villaggio.

Dopo la tavernetta la strada fila quasi rettilinea fino a Pula (2) centro di circa 3500 abitanti.

Questo villaggio venne a formarsi per riunione spontanea di pastori e agricoltori e al riguardo esiste nel nostro Archivio di Stato un interessante documento del 1807 (3).

Nel marzo di detto anno sorse fra i Consiglieri e il Sindaco di Pula da un lato e il Reggidore e Amministratore generale del Marchesato di Quirra una controversia sui territori di Foxi Suli o Sali, Cala d’ostia e su Puzzu.

Il Sindaco e i Consiglieri sostennero che gli abitanti di Pula non erano «vassalli del Marchese cli Quirra. ma semplici popolatori cli quel territorio come in fatti Pula non si appella villaggio ma popolazione, per cui Pula, come popolazione, non ha tratto alcun terreno in tutta l’estensone di quei territori che sia di sua dotazione, come lo tengono le altre popolazioni del Regno, che costituiscono veri villaggi, e che per ciò devono avere i loro prati per pascolo del bestiame manso, e la duplice vidazoni per l’alternato seminerio delle biade, anno per anno».

«Quindi e che gli abitanti degli altri villaggi riconoscono il loro Signore colla contribuzione del diritto feudale, e prestazioni degli altri


1) Spano G. – Op. cit. – pag. 40. 2) Lo Spano fa derivare questo toponimo da Phul: fenicio che vuoi dire promontorio -vedi G. Spano – Vocabolario Patronimico della Sardegna – Cagliari, 1872. 3) Archivio di Stato – Cagliari – Segreteria di Stato – Feudi – voi. 1647.

 


pagamenti e servizi domenicali cui gli astringe la qualità loro di vassalli, ed in compenso godono di tutti gli ademprivi necessari, legna, erba, ecc.».

 

«Gli abitatori di Pula però non riconoscono in altro il Marchese di Chirra, che colla contribuzione della mezza portadia di tutto ciò che seminano nei territori che interamente appartengono al libero suo demanio, nè godono d’alcuno dei sovraccennati ademprivi, se non in quanto ne corrispondono il corrispettivo in denaro, nè sarebbero autorizzati ad avere in forma un Consiglio Comunitario ma bensì eletti che li rappresentino ed è perciò che i medesimi non avrebbero ragione alcuna di prendere che il luogo di loro abitazione abbia assegnato due vidazzoni una delle quali serva di seminerio e l’altra di Povarili. Ciò non per tanto non devono quei popolatori, atteso il maggior numero cui essi sarebbero cresciuti, ed i loro bestiami si rude e doinito, essere privi di quella estensione di terreno di cui potrebbero abbisognare pel seminerio e manutenzione propria e dei detti loro bestiami». «Ma se occorrendo, nei veri villaggi di riconoscersi per questa ragione troppo limitate le vidazoni assegnate, che un tempo erano sufficienti, ad altro i rispettivi loro Consigli non sarebbero autorizzati che a farne le opportune rimostranze ai superiori per estenderle in proporzione degli abitanti vassalli, con quanta maggior ragione sarebbero tenuti a ciò fare i popolatori di Pula, che non essendo villaggio non ha diritto di dotazione su tratto alcuno di quei territori, qualora abbisognando di maggior estensione di terreno del seminerio e pascolo volessero maggior territorio».

Secondo questo esposto, Pula, all’inizio dell’800, non era «Villaggio» ma «Popolazione» indipendente da ogni vassallaggio feudatario, posto che non possedeva terreni per semina e per pascoli di origine ademprivia, come ogni villaggio doveva possedere entro il demanio feudale, ma pagava in denaro i diritti d’ademprivio d’onde la loro indipendenza dal feudo.

In verità il Villaggio di Pula fino all’inizio del secolo scorso non esisteva, conoscendosi solo un Castrum Pulae(1). Una vasta superfice incorporata con il villaggio di S. Pietro Pula nella Contea di Quirra formò, più tardi, la baronia di Pula ma senza gli abitanti, i «Popolatori» del nuovo agglomerato demografico, formatosi nelle terre predette non considerandosi vassalli dei Conti della Quirra i quali non avevano mai provveduto i «Popolatori» di Pula delle terre loro necessarie, e i «Popolatori» non furono in diritto di chiederle perchè non facenti parte del feudo. Il Lamarmora, nel suo Itinerario, afferma che la popolazione di Pula «data da un’epoca molto recente, e dopo abolita la pirateria, sta prendendo uno sviluppo considerevole» (2).

Sapendo che la pirateria ebbe fine verso il 1816 col trattato tra Vittorio Emanuele I e le Reggenze di Tripoli, Tunisi e Algeri, ne consegue che dopo questo periodo Pula prese quel notevole sviluppo di cui fa cenno il Lamarmora.


1) Fara J. B. – Chorographia Sardiniae – Carali, 1838 – pag. 102. 2) Lamarmora A. – Op. cit. – pag. 98.

 


Dopo l’abolizione dei feudi si iniziò, da parte dei Cagliaritani, la costruzione di case, nelle terre di Pula, per andarvi a villeggiare, impiantandovi ricche aziende agrarie, fra le quali notevoli quelle dei padri Scolopi che avevano eretto un ospizio con molti terreni in dotazione e quella dei frati della Mercede, con bellissimi frutteti, diretti e lavorati da alcuni padri laici, fra i quali si ricorda fra Domenico Aramu di Pirri che impiantò, in dette terre dei mercedari, un bellissimo frutteto che divenne un modello di frutticoltura, che procurava alla comunità ben 5000 lire l’anno di reddito. A seguito della legge Sicardi queste terre vennero espropriate, finendo in possesso di cittadini di Cagliari.

 

Il villaggio di Pula è stato costruito con materiale tratto dall’antica città di Nora, oggi in parte sommersa dal mare, in parte esplorata e in gran parte ancora sotto una spessa coltre di terra.

Dalle case di questo ameno, luminoso villaggio furono tolte molte lapidi e iscrizioni, inserite nei fabbricati e in modo visibile, per cui si pensa che molte altre ve ne siano incorporate.

Nei 1775 il Lamarmora vide incastrata, in un muro del locale chiostro dei Mercedari, una lapide che poi fu staccata e trasportata nel Museo Archeologico di Cagliari. Trattasi della più importante lapide fenicia finora scoperta in Sardegna e che fu oggetto di lunghi e accurati studi da parte di una ventina di studiosi dando ogniuno di essi una diversa interpretazione. Lo Spano, al riguardo, dice che i dotti furono, nella decifrazione di questa lapide, «di una disparità desolante» tanta fù la diversità di interpretazione.

Gli ultimi studi ritengono che la lapide sia solo una parte di due o tre lapidi che dovevano contenere l’iscrizione completa.

Secondo una allettante interpretazione che alcuni vorrebbero chiamare di comodo storico, la lapide ricorderebbe l’arrivo in Nora di Norace dalla Iberia. Tesi su cui si è intessuta tutta una storia di immigrazioni ibere quando all’epoca gli iberi non sapevano navigare, a leggere il loro maggior archeologo (1). E poi, iberi che scolpivano lapidi in fenicio!…

Di questa lapide diedero interpretazioni l’orientalista De Rossi, lo abate Arri, il Gesenio, il Benarius, il Quatremere, Movers, il Riccardi di Oneglia, il Lanci, Judas, Bourgade, il Padre Sechi, Garrucci, il Maltzan, ecc. e fra loro non vi fu un barlume d’intesa.

Altro frammento di lapide, il Lamarmora, lo fece staccare nel 1838 da sopra l’architrave di una casa del Villaggio e trasportata nel Museo Archeologico di Cagliari nel cui lapidario si trova molto materiale reperito in Pula.

Il villaggio è a 1 Km. dal mare, ricco di quei caratteristici colori mediterranei; di un grande avvenire turistico.

Oltre l’abitato, per la strada verso le rovine di Nora, s’incontra, sulla sinistra, la chiesetta di S. Efisio che la tradizione cristiana vuole sia stata eretta nel punto esatto in cui fu decapitato il Santo guerriero,


1) Treccani – Enciclopedia – Voce: Iberia di Bosc – Gimpera.

 


essa risale, per alcune sue strutture architettoniche, al periodo bizantino, ampliato nel Sec. XI dai Vittorini di Marsiglia che sostituirono nell’isola il clero regolare greco dopo lo scisma di Michele Cerullario.

 

Il 1° Maggio il simulacro di S. Efisio viene ogni anno recato processionalmente da Cagliari a questa chiesa con un corteo di fedeli e di autorità civili e religiose. Una bella descrizione di questa processione e dei festeggiamenti c’è l’ha lasciata la penna magistrale di Edoardo Scarfoglio che, con D’Annunzio e Pascarella assistette al ritorno del Santo da Pula.

 

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